Gli agrumi del Granduca
 
Di  Paolo Galeotti – curatore del giardino mediceo di Castello (Firenze)
   
La coltivazione degli agrumi ha origini lontanissime, ed avrebbe avuto origine nel continente asiatico -in Indonesia e nella Cina meridionale- non meno di 4000 anni fa, intorno al 2400.a.C. . Le più antiche indicazioni nella letteratura cinese e indiana vanno riferite appunto ad un periodo compreso fra gli anni 2400 e 800 anni a.C. e, non a caso, l’India sembra essere ancora oggi la regione più ricca di forme selvatiche. Le specie di cui si hanno più menzioni sono il pummelo, Citrus grandis, già ricordato nell’opera cinese “Il tributo di Yu” al tempo dell’Imperatore della Cina Ta Yu, intorno al 2200 a.C. anche se poco conosciuto e diffuso in Europa soltanto nel XII secolo, ed il cedro, del quale invece -forse per la sua utilizzazione nei riti religiosi- si è avuta una maggiore diffusione e conoscenza. Quest’ultimo fu infatti adottato dagli Ebrei per la cosiddetta “festa delle Capanne o dei Tabernacoli”, già nel VI sec. a.C., diffondendosi intorno al III sec. a.C.; Virgilio fu il primo scrittore latino a menzionarlo.
     

Il cedro, dal quale deriva il nome del genere Citrus, fece la sua apparizione in Toscana già nell’ XI sec., come viene riferito da Manni, il quale illustra un sigillo con l’impronta di tre cedri appartenente alla famiglia fiorentina dei Cedernelli.

Del limone sappiamo che era già presente in Italia nel I sec. a.C., dato che durante gli scavi

   
archeologici dell’Insula 9 di Pompei, tra il 1951
e il 1952, sotto la direzione di Amedeo Maiuri, venne alla luce nella “Casa del Frutteto” un affresco che raffigura una pianta di limone con ventuno frutti. Si deve invece andare risalire all’ XI sec. per avere notizie dell’arancio amaro, che fu introdotto in Italia probabilmente dai Crociati, proveniente dalla Palestina, dove era stato diffuso dagli Arabi nel X sec., i quali a loro volta lo avevano importato dalle regioni più meridionali dell’Asia. Gli aranci amari ed i limoni si trovano coltivati in Toscana già nel 1300, come ci riferisce il botanico Targioni Tozzetti, mentre per l’arancio dolce si deve aspettare il XV sec., quando venne introdotto in Italia da Genovesi e Portoghesi.
     

Anche la mitologia è ricca di riferimenti agli agrumi: basti pensare al giardino delle Esperidi ed ai pomi d’oro. Qualcuno ipotizza perfino che il pomo di Adamo ed Eva e quello che provocò la guerra di Troia fossero in realtà dei frutti di agrumi. Gli antichi avevano infatti scelto gli agrumi come simbolo di felicità e fertilità per i numerosi spicchi e semi presenti nel frutto chiamato ‘esperidio’; i

   
fiori e frutti d’arancio furono il dono di nozze di
Giove a Giunone e per questo il bouquet di fiori d’arancio è entrato nel costume del rito matrimoniale.
Nel XVI sec., con l’avvento al potere della famiglia Medici, iniziò a Firenze la coltivazione degli agrumi. Le varietà più rare e bizzarre diventarono vanto collezionistico nobiliare e da Firenze la “moda“ della coltivazione degli agrumi si diffuse in tutte le corti europee.
Per tutto il XVII sec. gli agrumi dei Medici continuarono ad essere oggetto di interesse, come dimostrano le tele del pittore Bartolomeo Bimbi che bene ha raffigurato nei suoi dipinti la bellezza di questi frutti e l’uso che i nobili fiorentini ne facevano. A quell’epoca limoni, aranci, cedri e bergamotti avevano principalmente una funzione ornamentale, ma venivano anche usati per scopi medicinali ed ornamentali.
     

Il sapore e la sugosità della polpa nel Sei-Settecento non era l’unica caratteristica apprezzata di quei frutti profumati, anzi, il loro aspetto ornamentale da esibirsi in giardino ma soprattutto in casa, nelle trionfali fruttiere e nelle ghirlande appese alle pareti, prevaleva in genere sulle considerazioni alimentari, anche se gli agrumi erano molto usati per l’estrazione di essenze e

   
se ne facevano polveri “.. da mescolare ai vini per
ammazzare i vermi e preservare dalla peste ..”, oltre che condimenti per dare gusto alle bevande ed ai cibi. Gli agrumi erano considerati un prezioso dono, un ricordo da offrire ad un nobile visitatore, un oggetto di scambio, per non parlare dei viaggi di ricerca che studiosi e raccoglitori intraprendevano per riuscire a scoprire -e spesso a carpire- nuove ed originali varietà, dalle quali poter prelevare marze per arricchire così le raccolte e le collezioni europee. Come già detto è nel ‘600 che esplose la “citromania”, ossia la moda della coltivazione degli agrumi ornamentali ed in quel periodo non c’era famiglia nobile che non esibisse almeno una pianta di limone. Nel centro-nord Italia, già nel XV sec., gli agrumi venivano coltivati vicino ad alti muri, allevati a spalliera e coperti in inverno con tettoie e stuoie. Per i limoni e gli aranci nel XVII sec. verranno poi costruite costose apposite serre, dette in Toscana ‘limonaie’ ed in Francia ‘orangerie’. Ogni residenza nobile da quel momento in avanti fu dotata del proprio ‘stanzone’ per gli agrumi dando vita ad una vera e propria competizione fra collezionisti e di conseguenza alla necessità di disporre di autentici cataloghi ed esatte classificazioni di specie e varietà.
     

Il primo a classificare gli agrumi fu un padre gesuita senese, Giovan Battista Ferrari, che nel 1646 pubblicò a Roma il trattato “Hesperides sive de malorum aureorum cultura et usu”; questo trattato fu seguito nel 1676 da quello intitolato “Nederlantze Hesperides” dell’olandese Commelyn, il quale nel giardino botanico di Amsterdam raccolse la più bella collezione di agrumi che il clima dell’Europa settentrionale permettesse di coltivare.

   
Fu poi la volta del tedesco J.C. Volkamer, che nel 1708-1714 pubblicò a Norimberga un trattato in due volumi arricchiti da preziose incisioni ed intitolato “Nümbergische Hesperides”. A questi seguirono diversi altri trattati e relative classificazioni: si deve ad esempio allo svedese Carlo Linneo la creazione del genere Citrus, che fu inserito nella sua opera “Species Plantarum ..” edita a Stoccolma nel 1753; altri interessanti studi sugli agrumi furono quelli del conte savonese Giorgio Gallesio che nel 1811 pubblicò a Parigi il suo “Traité du Citrus” seguito nel 1818 da quello di Risso e Poiteau “Histoire naturelle des orangers”.
Dovrà però passare oltre un secolo per arrivare al lavoro sulla sistematica del genere Citrus dell’americano Swingle, pubblicato nel volume “The Citrus industry” di Webber nel 1948, lavoro che sarà poi seguito da quello del giapponese Tanaka nel 1954.
     

E’ interessante sottolineare che la coltivazione degli agrumi in vaso è una specialità tutta italiana, tant’è vero che il nostro Paese ospita una delle più vaste ed importanti collezioni d’Europa e forse del mondo, una raccolta di veri e propri ‘pezzi d’antiquariato’ vegetali, rappresentata dalla collezione medicea conservata nel giardino della villa medicea di Castello ed in piccola parte in

   
quello di Boboli a Firenze. Questa collezione
riveste un particolare interesse storico-botanico e comprende circa mille piante in vaso, fra grandi e piccole, secolari e recenti, ma sempre di immenso valore per la loro discendenza dalle cultivar medicee. La sua coltivazione in vasi di terracotta dell’Impruneta (una località poco fuori Firenze famosa proprio per questa particolare attività artigianale), anche di notevoli dimensioni, ornati da fregi e stemmi di epoca granducale, le varietà rare che la compongono, le bizzarrie e le mostruosità dei suoi frutti, fanno sì che questa collezione possa essere considerata assolutamente unica nel suo genere, una vera e propria ‘Galleria degli Uffizi’, un ‘Louvre’ degli agrumi. Le piante durante l’inverno vengono ricoverate nelle limonaie, per poi essere esposte da aprile ad ottobre negli spazi appositi del giardino formale; le operazioni di trasporto dei vasi di agrumi da fuori a dentro e viceversa sono così complesse che richiedono oltre un mese di lavoro di diversi giardinieri.
     
Nel corso di questo secolo, purtroppo, la collezione granducale ha subito gravi danni, con la conseguente perdita di parte delle pregiate cultivar medicee: durante la I Guerra Mondiale (1915/18), le limonaie di Castello furono infatti adibite ad Ospedale militare ed i giardinieri furono così costretti a lasciare le piante all’aperto per diversi inverni, tanto che le piante sopravvissute ancora
   
portano i segni di quel tragico periodo. Andò
fortunatamente meglio agli agrumi di Boboli quando, durante l’alluvione di Firenze del 1966, la limonaia fu utilizzata per il ricovero delle opere d’arte danneggiate e le piante furono provvisoriamente ricoverate sotto il loggiato degli Uffizi. Ancora oggi le collezioni di agrumi dei giardini medicei sono seguite con amore e dedizione da giardinieri specializzati, che li coltivano secondo metodi tradizionali tramandati da una generazione all’altra e gelosamente custoditi, sebbene le contingenze economiche degli ultimi anni ne rendano sempre più difficile il mantenimento ottimale.